Un solo colpevole, anche se il più importante dei quattro imputati, e una sorta di assoluzione per insufficienza di prove per Hezbollah e la Siria. Si è concluso così, a 15 anni dai fatti e a sei dall’inizio del procedimento, il processo davanti al Tribunale speciale dell’Onu per l’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri in uno spaventoso attentato suicida sul lungomare di Beirut che cancellò dalla scena politica libanese uno dei più temibili avversari del regime di Damasco e del Partito di Dio sciita sostenuto dall’Iran.
L’assassinio di Hariri e di altre 21 persone nell’esplosione
di un furgone-bomba che il 14 febbraio del 2005 devastò l’area
davanti allo storico Hotel San Georges fu “un atto politico”, ha
affermato il Tribunale speciale per il Libano, riunito a Leidschendam, vicino all’Aja. “La Camera di consiglio – ha insistito il presidente, David Re – è del parere che la Siria e Hezbollah possano avere avuto motivi per eliminare Hariri, tuttavia non ci sono prove che la leadership di Hezbollah abbia avuto alcun coinvolgimento nel suo omicidio e non ci sono prove dirette del coinvolgimento siriano”.
Il Partito di Dio non ha mai riconosciuto la legittimità della Corte internazionale e fin dall’inizio aveva messo in chiaro che non avrebbe consegnato i quattro imputati, indicati come suoi appartenenti. Il processo si è svolto quindi in contumacia e alla fine solo Salim Ayash, ritenuto il capo del commando che eseguì l’attentato, è stato riconosciuto colpevole.La sentenza nei suoi confronti, con la pena prevista che potrebbe arrivare fino all’ergastolo, sarà emessa il 21 settembre, ma nel frattempo avrà 30 giorni di tempo per ricorrere in appello.
Gli altri tre, Assad Sabra, Hussein Oneissi e Hassan Merhi, che erano accusati di complicità, sono stati assolti. Un quinto accusato, Mustafa Badreddine, indicato dagli investigatori come il ‘cervello’ dell’operazione, è morto
nel 2016 in un misterioso attentato a Damasco.
L’uccisione di Hariri provocò una reazione popolare senza precedenti, con gigantesche manifestazioni di piazza che costrinsero la Siria a ritirare le sue truppe dal Libano dopo 30 anni di occupazione. Ma creò anche un aggravamento delle
tensioni politiche interne tra due fronti rivali: quello sunnita
capeggiato dal figlio di Hariri, Saad, e appoggiato da Francia e
Stati Uniti, e quello sciita sostenuto da Iran e Siria. Con i cristiani spaccati in diversi gruppi schierati con l’uno o con l’altro. Raggruppamenti politico-confessionali tutti accusati di corruzione e incapacità e presi di mira dalle contestazioni di piazza cominciate con la gravissima crisi economica dell’ultimo anno e riprese con maggiore virulenza dopo la gigantesca esplosione che il 4 agosto ha devastato interi quartieri di Beirut provocando almeno 177 morti.
Le prime, prudenti reazioni al verdetto indicano una volontà di smorzare tensioni che potrebbero riportare il Paese sull’orlo di una nuova guerra civile, in coincidenza con una crisi di governo apertasi nei giorni scorsi con le dimissioni del primo ministro Hassan Diab. Saad Hariri, che è stato anch’egli più volte primo ministro, dopo avere assistito in aula all’ultima udienza ha detto che “accetta” le decisioni della Corte. “Il verdetto manda agli assassini il messaggio che l’era dei crimini politici è finito”, ha aggiunto parlando in una diretta televisiva. Sull’altro fronte il presidente Michel Aoun, cristiano fedele alleato di Hezbollah, ha auspicato che il Libano rimanga unito in onore all’insegnamento dello stesso Rafiq Hariri “per proteggere il Paese da ogni tentativo di provocare sedizioni”.