Nel luglio del 2019 una telefonata ai carabinieri svelò le angherie subite da un bimbo, oggi 12enne, in quella che venne rinominata la “villetta degli orrori” nelle campagne di Arzachena, in Costa Smeralda. Era stato la vittima stessa, chiusa a chiave nella sua cameretta, a chiedere aiuto ai militari. Oggi, dopo le indagini e il processo in primo grado con rito abbreviato i genitori di 48 e 44 anni, e la zia, di 41, sono stati condannati a otto anni di reclusione dal giudice Marco Contu del Tribunale di Tempio Pausania. Due anni meno di quelli chiesti dai pm Luciano Tarditi e Laura Bassani, titolari dell’inchiesta coordinata dal procuratore Gregorio Capasso e svolta dai carabinieri di Olbia e Arzachena. La ricostruzione accusatoria, però, è stata accolta: nessuna attenuante generica riconosciuta, nessuna clemenza dinanzi a un pentimento comunque tardivo, nessuna valutazione dell’assenza di precedenti e del percorso di rieducazione intrapreso, come ha fatto sapere oggi la zia con uno scritto che il suo difensore, l’avvocato Angelo Merlini, ha letto in aula.
I genitori e la zia resteranno ai domiciliari. Merlini e gli altri legali, Marzio Altana per il padre e Alberto Sechi per la madre, attendono le motivazioni per decidere se ricorrere in appello. I tre condannati dovranno riconoscere una provvisionale di 100mila euro alla vittima, che intanto è diventato un ragazzino libero e da tutt’altra parte – assistito dall’avvocato Giorgina Asasa – prova ad assaporare il gusto dei 12 anni ritrovati. Ora bisogna sperare che il coraggio con cui ha messo fine al suo incubo lo aiuti a lasciarsi alle spalle l’incredibile vicenda di cui è stato vittima. Una speranza ben riposta: un anno fa l’istinto di sopravvivenza l’aveva spinto a ribellarsi ad angherie indicibili. Era la fine di giugno dello scorso anno: i genitori dovevano andare a ballare. Come altre volte, l’avevano chiuso a chiave in cameretta, in casa.
Avevano smontato la maniglia interna della porta, sigillato la finestra. Gli avevano lasciato un secchio per i bisogni e un cellulare senza scheda, per distrarsi ma senza muoversi da quella prigione. Lui, col telefono abilitato alle sole chiamate d’emergenza, aveva contattato i carabinieri, facendo emergere una storia raccapricciante. Segregato per mesi e maltrattato. Digiuni, botte, punizioni psicologiche e fisiche, docce gelate per punizione. Un trattamento disumano per rimediare a “problemi educativi” indicati come causa della crisi familiare. Tutto rintracciato in file audio e diari finiti nelle mani della Procura.
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