L’e-mail di ufficio da controllare non ogni momento ma comunque ogni due-tre ore, leggerle e scrivere risposte, rispondere alle telefonate di lavoro perchè ‘bisogna esserci sempre’, ritrovarsi anche in spiaggia con il device nella borsa insieme all’asciugamano ritenendolo utile come una crema solare, andare nel panico se non c’è campo, persino evitare mete, come spesso in alta montagna, dove il wi-fi è raro, avere insomma il cervello non solo sempre acceso ma orientato sul lavoro. E’ la nuova condizione di “workcation”, o Workation, letteralmente Working On Vacation, fortunate quelle categorie di lavoratori che non la conoscono, perchè estate dopo estate sembra essere sempre di più accettata anche da noi stessi, come se fosse tutto sommato normale, mentre generazioni precedenti – quelle beate non raggiungibili dalla telefonia mobile – una volta chiuso l’ufficio o la fabbrica o la scuola o lo studio professionale o il negozio la porta dietro le spalle seppure per 15 giorni la chiudevano per davvero. Oggi è diverso, vale per i professionisti, vale per la generazione precaria che quasi quasi non conosce la parola ‘ferie’ che sono un diritto del lavoratore si ma quello regolare. Il vero lusso abbiamo imparato negli ultimi tempi è restare off-line non a caso è per i veri ricchi che nel resort 5 stelle offrono tra i surplus il ‘sequestro’ del cellulare per far si che non si cada in tentazione di controllarlo seppure ogni tanto.
Spesso però non è una vera e propria costrizione ma piuttosto un prolungamento naturale del workaholism di cui soffriamo tutto l’anno, incapaci di separare vita/lavoro come un tempo.
Così come lo ‘smart work’, all’inizio anche mentalmente osteggiato e oggi molto più accettato, la workation potrebbe avere lati positivi come andare in vacanza più spesso e non solo nel canonico periodo delle ferie d’agosto, mescolando attività del tempo libero e relax con lavoro vero e proprio, bilanciando le due condizioni guadagnando in creatività e ispirazione. Almeno così teorizzano gli americani che al Worcations dedicano libri e corsi di formazione. C’è anche chi al termine ‘workation’ associa i nativi digitali nomadi per definizione che sarebbero nella condizione di lavorare ovunque, 365 giorni l’anno, semplicemente viaggiando e utilizzando gli spazi di co-working che sono in tutto il mondo ormai. Esisterebbero dunque due accezioni del termine, positiva e negativa, secondo il lato da cui si guarda e l’età: per i giovani nomadi ‘lavorare in vacanza’ è un segno del loro tempo, per le generazioni precedenti una tragica conseguenza dei nuovi tempi.
Lavorare seppure in ferie, lavorare sempre e non staccare davvero mai rischia di aggiungersi alla lista delle tante dipendenze di questi anni. Trasformare il senso di colpa dell’andare in ferie – è assurdo ma esiste – in una consapevolezza di necessità e salute: è uno dei consigli utili della coach Marina Osnaghi. Capire che la nostra assenza dal posto di lavoro non è sinonimo della fine del mondo. “Bisogna ascoltare se stessi e i propri limiti per capire quando è arrivato il momento di staccare momentaneamente la spina per evitare un burnout mentale”, spiega. Le ferie insomma, per il nostro bene, devono tornare ad essere un momento di riposo dalle problematiche di ufficio, dal mondo del lavoro e occasione per allargare lo sguardo, osservare altri panorami e così rigenerarsi. Capire che le ferie sono il momento utile – ‘utilità’ una la parola magica per i workaholic – per tornare al lavoro più carichi di quando abbiamo salutato i colleghi. Un’altra tattica, ove fattibile, può essere non aver paura di chiedere aiuto ad un collega, delegare un compito da svolgere in vostra assenza, nei limiti del possibile, e ricambiare il favore aumenta la fiducia e il teamworking.
“La nostra cultura in continua presa diretta non ci aiuta minimamente a staccare dalla routine lavorativa ed è per questo che i cicli che compongono le attività quotidiane conditi da pensieri legati agli insuccessi lavorativi o ai fallimenti aziendali, diventano addirittura un incubo nel periodo delle ferie – spiega Marina Osnaghi, in un report di Espresso Communication sul tema lavoro/vacanza, – La pausa estiva rappresenta una forma di manutenzione obbligatoria da attuare per continuare ad apportare risultati efficaci per l’azienda, nel team e in famiglia. Pensando in termini di semplificazione, l’obiettivo è quello di sospendere le attività e limitarsi al minimo indispensabile durante le vacanze”.
Lavorare anche in vacanza è una nuova condizione non certo solo italiana. Secondo sondaggio pubblicato su Washington Examiner, riguarda in Usa il 39% dei nativi digitali , e secondo una ricerca americana della National Health Association e pubblicata su Business Journals a soffrire maggiormente della condizione di “stress da vacanza” sembrano essere le donne: il 57% delle appartenenti alla Generazione Z ha dichiarato di aver risposto ad e-mail di ufficio e lavorare anche in spiaggia.