La passione per l’arte greca e romana nell’epoca del Grand Tour contagiò sovrani, aristocratici e viaggiatori illustri e favorì il fiorire di laboratori e botteghe di maestri specializzati nella riproduzione seriale di capolavori del mondo classico. Si sviluppò allora la fabbrica di souvenir destinati ad arricchire collezioni e dimore, con le repliche ispirate – o copiate di sana pianta – alle icone dell’ antichità. Di questo capitolo particolare della storia dell’ arte si occupa la mostra “Il Classico si fa Pop. Di scavi, copie e altri pasticci”, fino al 7 aprile, che il Museo Nazionale Romano ha suddiviso in due delle sue sedi, Palazzo Massimo e Crypta Balbi.

Tutto parte dalla scoperta dieci anni fa nel rione Monti durante scavi archeologici dell’atelier di Giovanni Trevisan, il Volpato, artista e incisore della metà del Settecento che tra i committenti contava il Re Gustavo III di Svezia e l’ imperatrice Caterina II di Russia e che realizzò prodotti raffinati per una cerchia ristretta di clienti interessati agli originali di epoca romana o alle repliche di dimensioni più piccole. E’ una mostra dall’ allestimento suggestivo, che fa un uso ampio e coinvolgente di videografica e effetti di luce per proiettare il tema in un ambito molto moderno. La sfida, nelle intenzioni dei curatori – Mirella Serlorenzi, l’ ideatrice, Marcello Barbanera e Antonio Pinelli – è ribaltare l’ impostazione classica dell’ esposizione museale cercando di ricreare il contesto e le modalità il cui l’ opera è stata creata. Per spingersi fino ad oggi e riflettere sulla serialità dell’opera d’arte celebrata da Warhol ma “ribadendo che l’ arte classica non era caratterizzata da capolavori unici e irripetibili”.

A Palazzo Massimo si racconta la storia delle grandi copie cominciata dal mondo antico. In una sala buia una luce bianca scorre lentamente sull’Ermafrodito dormiente, da un originale del II secolo, poi un fascio di luce più gialla prosegue sulla Ninfa dormiente di Antonio Canova, del 1820-22, che gli è accanto. Sulle pareti si illuminano le immagini dei dipinti della Venere di Canova, e la coppia di foto speculari di La Nuova Dolce Vita (2009), di Francesco Vezzoli, con Paolina Borghese e l’ attrice Eva Mendes, in un gioco molto efficace di rimandi. Di grande impatto la sala con le cinque statue di varie epoche e provenienze (tra le circa venti in circolazione) ispirate al disperso discobolo di Mirone a cui si contrappone la grande foto del 1985 di Robert Mapllethorpe del modello nudo nella posa del discobolo. Effetti mirabolanti crea la grande scatola a specchi con le statue dei due Tirannicidi nella quale il visitatore può entrare e su cui si riversa una continua cascata di immagini multicolori in videografica.

La Crypta Balbi, invece, documenta lo scavo con i 12 mila pezzi trovati nella Bottega di Volpato e, tra le maggiori attrazioni, presenta il maestoso Dessert di Bacco e Arianna, centrotavola formato in origine da 98 pezzi proveniente da Bassano del Grappa, un'”opera di arte neoclassica pura”. “E’ una mostra molto colta e raffinata – ha detto Daniela Porro, direttrice del Museo Nazionale Romano – che per il suo allestimento pop curato da giovani architetti piacerà anche ai giovani, ai quali guardiamo in modo particolare”. Mirella Serlorenzi ha insistito sul valore scientifico della esposizione che nasce da una ricerca sul campo. “Volpato – ha spiegato – è un personaggio poliedrico eccezionale che oggi potremmo definire il ‘manipolatore dell’ antico’. Raccontando la produzione di una bottega si può capire il collegamento tra archeologia e storia dell’ arte”. “Qui si vuole raccontare che le opere, dalla creazione al rinnovamento, hanno avuto molte vite – spiega Marcello Barbanera -. Due copie del discobolo ne sono la prova: una trovata negli Horti imperiali, l’altra in una casa modesta. Dal passato a oggi l’arte è un po’ tutto un rimescolamento di carte”. La “febbre” per l’ arte antica fu scandita nel Settecento anche da interventi spregiudicati sulle opere classiche, restauri azzardati, falsificazioni vere e proprie, assemblaggi di pezzi provenienti da sculture e architetture diverse a formare pastiche affascinanti.

“Di fronte a questa straordinaria domanda – osserva Pinelli – si pose un formidabile esercito di artisti che si rifecero a tecniche e materiali del passato o se ne inventarono di nuovi. La ripresa dell’ antico ha avuto una ricaduta fino a noi. Sono gli antenati illustri delle statuine della torre di Pisa o del David di Donatello che troviamo sulle bancarelle. Ma la discesa verso la plastica è stata riscattata anche attraverso l’ ironia warholiana della Pop art”.