Marco Santopadre, giornalista ed esperto di politica internazionale e di movimenti di liberazione nazionale è in questi giorni per presentare il suo libro “La sfida catalana, cronaca di una rivoluzione incompiuta” su spinta del movimento Caminera Noa che l’ha voluto in Sardegna per raccontare l’esperienza dei movimenti di liberazione catalani.
E’ stata quindi un occasione unica per discutere, insieme a lui, dell’indipendentismo sardo e del contesto internazionale.
Marco qual è il paragone tra indipendentismo sardo e catalano?
Parlando delle differenze tra l’indipendentismo sardo e quello catalano il primo elemento da sottolineare è che la Catalogna è stato uno dei territori dello Stato Spagnolo dove la rivoluzione industriale si è affermata precocemente, come del resto nel Paese Basco, comportando la nascita di una numerosa e organizzata classe operaia le cui vicende e mobilitazioni si sono intrecciate fin dall’inizio con le rivendicazioni culturali e politiche dell’incipiente movimento indipendentista.
La Catalogna non ha subito storicamente un processo di natura coloniale equiparabile a quello imposto dallo Stato Italiano alla Sardegna o dallo Stato Francese alla Corsica, anche se ha dovuto subire una vasta repressione politica che ha visto il suo auge prima con la dittatura di Primo de Rivera all’inizio del secolo scorso, poi con quella di Francisco Franco e poi ancora recentemente durante i fatti di settembre-ottobre.
Un’altra differenza sostanziale è che in epoca moderna la Catalogna ha potuto godere di una forte autonomia, dapprima durante la Guerra Civile e poi dopo l’avvio della cosiddetta “transizione” dal franchismo all’attuale monarchia parlamentare.
L’autonomia ha permesso la creazione di una rete di istituzioni politiche, economiche e culturali che hanno permesso ad esempio la conservazione e il rilancio della lingua catalana, oggi usata da una consistente percentuale della popolazione nella vita quotidiana e anche a livello ufficiale, istituzionale, culturale.
In Catalogna è stata vera rivoluzione?
Credo che quella catalana si possa definire “rivoluzione” perché ha tentato, seppure in maniera non lineare, di produrre una rottura con lo Stato Spagnolo a partire dalla creazione di una Repubblica Catalana contrapposta ad una Spagna monarchica e reazionaria, in cui gli elementi di continuità istituzionale ed ideologica con il regime franchista sono numerosi.
Una parte importante della popolazione catalana mobilitata, e alcune opzioni politiche organizzate a partire dalla Candidatura di Unità Popolare hanno concepito la formazione della Repubblica Catalana come uno strumento di rottura non solo nazionale, ma anche sociale ed economica nei confronti dello status quo, del liberismo, dell’austerità, di relazioni sociali basate sul sessismo ed il razzismo.
Si può parlare di “rivoluzione” anche in considerazione del fatto che in Catalogna nei mesi scorsi abbiamo assistito alla più massiccia campagna di disobbedienza di massa mai verificatasi in Europa negli ultimi decenni.
Come lo stato fascista spagnolo ha imposto il suo modello culturale ai catalani?
Durante il franchismo la dissidenza di sinistra, repubblicana e indipendentista è stata duramente colpita in Catalogna come nei Paesi Baschi e nel resto dello Stato. Tutte le lingue diverse dal castigliano sono state proibite nello spazio pubblico e cancellate dalla produzione culturale, Ma una parte importante della popolazione catalana, sia all’interno delle classi popolari che della piccola e media borghesia, ha difeso e conservato la lingua locale ottenendo una certa apertura del regime nell’ultima fase della dittatura. Il franchismo ha tentato di imporre il proprio modello culturale in Catalogna soprattutto attraverso la repressione e l’uso della forza, ma ci è riuscito solo in parte. Dopo la fine del franchismo, i partiti nazionalisti spagnoli hanno sempre tentato di strumentalizzare la popolazione spagnola immigrata in Catalogna per motivi economici per dividere la società catalana e mettere gli immigrati contro gli autoctoni, il che spiega l’ascesa alle ultime elezioni di un partito come Ciudadanos, che ha preso molti voti sia all’interno delle elite catalane sia all’interno dei settori popolari provenienti da altre regioni dello stato. Ma il movimento indipendentista catalano, soprattutto nelle sue componenti di sinistra radicale, ha sempre concepito la lotta per l’indipendenza come una battaglia inclusiva, basata non sul ‘sangue’ o ‘la discendenza’ ma sulla comunità di destino tra tutti coloro che, a prescindere dalla propria origine, vivono e lavorano in quel territorio.
Con il nuovo governo socialista può aprirsi un nuovo dialogo tra stato spagnolo e governo catalano?
I socialisti spagnoli sono insieme al Partito Popolare e a Ciudadanos una delle tre gambe su cui storicamente si poggia il cosiddetto “regime del 78”, cioè quel regime politico frutto dell’autoriforma della dittatura franchista, governato da una monarchia corrotta e autoritaria e da istituzioni centraliste e reazionarie.
I socialisti hanno sostenuto la repressione del governo Rajoy contro la mobilitazione popolare indipendentista dei mesi scorsi e hanno già chiarito che non permetteranno alcun referendum sull’autodeterminazione; hanno inoltre annunciato una riforma del codice penale che permetta l’applicazione dei reati di “sedizione” e “ribellione” anche nel caso in cui gli imputati non abbiano fatto ricorso ad alcuna forma di violenza o all’uso delle armi. Sulle questioni fondamentali il PSOE non dice cose diverse dai partiti nazionalisti di destra spagnoli. Certamente il PSOE non è il PP, e Sanchez ha annunciato una serie di cambiamenti di tipo simbolico o relativo che possono aggravare la divisione tra i settori catalanisti inclini ad abbandonare la battaglia per l’indipendenza in nome di un aumento dell’autonomia e quelli che invece ritengono chiusa la fase dell’autonomia e difendono la via unilaterale e disobbediente intrapresa con il referendum del Primo Ottobre scorso.