Quest’anno ricorrono i settant’anni dello Statuto autonomistico della Sardegna. Non mi soffermo sui penosi festeggiamenti con tanto di fanfara presidenziale che sono stati allestiti per l’occasione e nemmeno sulla pessima idea di imbellettare una ventina di bambini e fargli cantare un inno che dichiara “siamo pronti alla morte”. Ci sarebbe da riflettere su questo e da interrogarsi quale sia la differenza che ci separa dall’orribile episodio che ha visto il sultano turco Erdogan istigare al martirio una povera bambina spaventata vestita in mimetica. Se si vuole istigare al martirio qualcuno per la grandezza di uno stato almeno lo si faccia con i maggiorenni e si lascino stare i bambini!
Ma passiamo al festeggiato. Lo Statuto sardo è una carta che definire timida è pure troppo poco. Non ha nemmeno il coraggio di definire i sardi un “popolo” e una “nazione”, non fa cenno a nessuna tutela linguistica e quei pochi articoletti che garantirebbero qualche pallida garanzia sovrana sono rimasti lettera morta per 70 anni.
Un esempio? L’art. 5 prevede la possibilità che la Regione adatti «alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione ed attuazione, sulle seguenti materie: a) istruzione di ogni ordine e grado, ordinamento degli studi; b) lavoro; previdenza ed assistenza sociale; c) antichità e belle arti; d) nelle altre materie previste da leggi dello Stato». Perché non è mai stato applicato? Per il semplice motivo che dal dopoguerra ad oggi hanno sempre governato partiti e coalizioni di partiti che nominalmente si dichiaravano “autonomisti” ma nei fatti erano più lealisti del Re, più centralisti delle loro segreterie romane.
Oggi, anziché far canticchiare ai bambini inni votanti al martirio, bisognerebbe fare due cose: applicare alla lettera quei pochi articoli che prevedono competenze sovrane e immediatamente lanciare un grande dibattito per una riforma nazionalista dello Statuto. Senza chiedere la luna, a settant’anni dalla sua stesura originale, oggi il tema dovrebbe essere la sua riscrittura a rialzo, partendo dal riconoscimento della nazionalità sarda e delle sue lingue (sardo, parlate sardo-corso, catalano e tabarchino). Impossibile? No, il Trentino-Südtirol, nel suo secondo articolo del suo Statuto, riconosce «parità di diritti ai cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, e sono salvaguardate le rispettive caratteristiche etniche e culturali». È un principio democratico irrinunciabile e insopprimibile a cui nessun popolo può o deve rinunciare. In cosa consiste la specialità che aggettiva lo Statuto se non nella dimensione storica, antropologica, culturale e linguistica che distingue la nazione sarda dal resto del mondo? Non certo nell’insularità come i nuovi neocentralisti vorrebbero far credere.
A 70 anni dalla sua stesura lo Statuto sardo è davanti ad un bivio: o rinasce spinto da una seconda e più dignitosa vita o meglio l’eutanasia!
Cristiano Sabino