“Quando ricevi notizie del genere ti chiedi solo che fine abbia fatto Dio. Guardavo mio figlio di 18 mesi negli occhi, quegli occhi stupendi, e non riuscivo a capire perché fosse capitato proprio a lui, proprio a noi: cosa avevamo fatto di male?”.
E’ complicato raccontarlo, il dolore di una madre: resta rinchiuso lì, in uno sguardo scambiato col proprio marito di fronte a un medico che ti spara addosso una diagnosi che suona più come una condanna. Perché è così la distrofia muscolare di Duchenne (DMD), che si legge alla francese come un passo di danza ma in realtà è una caduta pesante nel vuoto.
La DMD, in termini medici, è una mutazione genetica che colpisce i bambini maschi (con incidenza 1/3300 e solo in alcune rarissime eccezioni le femmine) e intacca la produzione di una proteina contenuta nel cromosoma X, la distrofina, provocando atrofia e debolezza muscolare a progressione rapida, dalla degenerazione dei muscoli scheletrici, poi lisci, fino a quelli cardiaci. E’ una malattia che a un certo punto ti invita a sederti in una sedia a rotelle finché consuma le batterie di cuore e polmoni, tradotto nella lingua dei comuni mortali che la guardano in faccia e la combattono tutti i giorni.
Leo è un bambino di 7 anni, con gli occhi giganti e pieni di tutto. Sandra e Alessio sono i suoi genitori:
“Aveva 18 mesi quando gli è stata diagnosticata. E’ stato il giorno più brutto della nostra vita – raccontano – anche perché avevamo appena scoperto di aspettare il fratellino, Emanuele. Il destino ci aveva riservato davvero un brutto scherzo: il tempo si è fermato ed è cambiato tutto”.
I primi sintomi Leonardo li ha manifestati quando aveva sei mesi con un rallentamento significativo della crescita; da quel momento ci è voluto quasi un anno per avere la diagnosi definitiva.
“Da genitori che pensano alle cose normali tipo l’educazione, i giochi, l’asilo etc, si diventa esperti di una malattia di cui non conoscevi nemmeno l’esistenza. Cambi tu, cambiano le tue giornate, il tempo corre e vorresti fermarlo. E poi cambiano anche le persone che hai intorno: ti accorgi che qualcuno resta e diventa il tuo angelo, altri dicono che resteranno, altri ancora spariscono. Poi scopri che gli ultimi due sono la stessa cosa ma che a te, in fondo, non te ne frega nulla perché non hai più tempo da perdere”.
Ed è così che Sandra e Alessio, come tutti i genitori per i quali le giornate diventano una sfida, tutti i santi giorni, a tutte le ore, prendono in mano il loro dolore, lo guardano negli occhi e lo trasformano pazientemente in coraggio, tutto quello che ci vuole per affrontare le cure, per dimostrare di avere dei diritti, per dimenticare gli sguardi di compassione e sostituirli con la collaborazione e l’attivismo di chi davvero desidera esserci.
“Leo, che vede il suo fratellino diventare il suo fratellone, senza saperlo insegna a chiunque incontri nel suo cammino cosa significhi essere un supereroe. E se potrà esserlo ancora per un bel po’ – continua Sandra – è anche grazie alla ricerca scientifica che ha permesso di raddoppiare l’aspettativa di vita dei bambini Duchenne”.
Parent Project è una onlus che per statuto si pone come scopo sociale la promozione, tramite finanziamenti selettivi di progetti che si ritengano avere possibilità ragionevoli, della ricerca di una terapia. Per questo è nata la giornata mondiale della distrofia di Duchenne, fissata per il 7 settembre (7/9 perché 79 sono le unità di cui si compone la distrofina). La ricerca non ha ancora trovato una cura definitiva ma ha permesso di portare a 40 anni (meno di trent’anni fa erano la metà) l’aspettativa di vita delle persone colpite.
“Parlare della malattia è importante – chiosa Sandra – affinché il cuore delle persone possa essere toccato al pensiero che dietro la più piccola donazione ci sia discretamente nascosta la nostra speranza di genitori. In fondo, quello che desiderano tutti, è invecchiare con accanto i propri figli e nipotini”.