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La battaglia di una donna che subisce violenza si compone di "meccanismi che a volte si inceppano" e, nonostante denunce, richiami o ricoveri ospedalieri, alla fine giunge all'insuccesso. Difficile, individuare in questo percorso, responsabilità uniche e del tutto 'colpevoli' ma è frequente che in casi che si rivelano poi drammi – come quello di Trieste per cui oggi la Corte di Strasburgo condanna l'Italia – ciò che conta veramente è una "sottovalutazione collettiva" del rischio vissuto dalla donna e dai figli. Può essere, ad esempio, il medico che non si chiede perché una donna chiede troppi psicofarmaci o il servizio sociale che interviene in modo improvvido per far incontrare forzatamente un bambino col padre violento. Spesso "non viene dato valore al racconto delle donne. E se qualcosa non funziona non è nel singolo ma chi in quel momento non ascolta abbastanza la donna". Anche le denunce lasciano il tempo che trovano: "se non c'è poi qualcuno, un avvocato, un centro, vicino alla donna che spinge e rilancia il caso, rischiano di essere archiviate". E' la riflessione sulle politiche antiviolenza di Luisanna Porcu, responsabile del Centro antiviolenza Onda Rosa di Nuovo, aderente alla rete Dire, che denuncia un fenomeno noto, ma fortemente condizionante degli interventi di prevenzione: la mancanza di fondi. "Sul territorio – dice – i centri antiviolenza sono messi malissimo, molti stanno chiudendo. Non ce la facciamo più". La mancanza di risorse va a scapito di interventi adeguati per la prevenzione e l'accoglienza. "A fronte di una media di casi annui ormai abbastanza strutturali – sostiene Porcu – ricordo che i femminicidi sono 125-130 l'anno, noi a Nuoro assistiamo circa 330 donne l'anno, le risorse diminuiscono. La violenza alle donne non è un'emergenza, è un fenomeno strutturale e come tale va affrontato". In Italia, molti centri hanno chiuso o stanno chiudendo, e con essi le case di accoglienza e le case rifugio, luoghi che possono davvero tutelare la donna e i suoi figli dalla violenza assassina del partner. Luisanna Porcu sottolinea il caso del suo centro. "In Sardegna abbiamo una legge regionale che istituisce e finanzia i centri antiviolenza. Ma solo a fine anno noi possiamo sapere su quante risorse possiamo contare, dopo ovviamente aver speso ed anticipato i soldi. Nel 2016, ad esempio, per le nostre attività abbiamo speso ed anticipato 250 mila euro. La Regione ha per ora solo deliberato 170 mila euro. Noi stiamo quindi sotto di 80 mila euro. Come fare? Non sappiamo proprio. Continuiamo a lavorare ma siamo a rischio chiusura. Chiediamo alla Regione una delibera aggiuntiva ed una programmazione delle risorse triennali così da essere consapevoli di quanto poter disporre".