"La felicità promessa dal progresso moderno è associata a un'esistenza priva di turbamenti, di inciampi, senza sforzo. Ma siamo proprio sicuri che questa sia la felicità?" È l'interrogativo che si pone il grande pensatore Zygmunt Bauman, scomparso due giorni fa, nel libro "Meglio essere felici" (in uscita il 23 gennaio per le edizioni Castelvecchi, prefazione di Massimo Arcangeli, traduzione di Cristina Guarnieri), che già di recente ha pubblicato "Scrivere il futuro" dello stesso autore. Il testo è la rielaborazione dell'intervento del giugno scorso al festival Leggendo Metropolitano di Cagliari. Bauman più che fornire ricette magiche per essere felici, richiamando pensatori come Goethe e Tocqueville, Freud e Scheler, riflette sulle cause sociali della felicità e dell'infelicità. La soluzione oscilla fra il fatum, che impone le sue leggi ma ci offre lo spettro delle nostre possibilità, e il "carattere", cui spetta il compito della scelta. Tra questi due poli si inserisce il mercato consumistico, che produce clienti insoddisfatti, e la solitudine, virus dell'era contemporanea che nutre il business dei social network mentre l'amicizia, l'amore e la necessità vitale di vivere assieme agli altri tendono a sparire. Il consiglio (apparentemente) semplice, lapalissiano, che dunque ci lascia in eredità il pensatore polacco è: se la felicità non è uno stato permanente, ed è difficile definirne il contenuto, è comunque meglio essere felici che infelici. O meglio, scegliere di essere tali. Come? "La felicità comincia a casa, nella presenza fisica con gli altri, non su internet. Non potete dimenticare la dimensione offline della vita che richiede abilità di dialogo, determinazione, energia, incontro con il diverso e con lo sguardo dell'altro".
Uncategorized Bauman, il 23 gennaio esce breve saggio per ‘essere felici’