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Anche per il sottoscritto, come per tanti, dopo quasi 8 anni di servizio tra la popolazione di fratelli e sorelle ristretti del carcere di Buoncammino, la giornata di domenica è stata un insieme di emozioni e sentimenti contrastanti, nell’osservare e vivere la grandiosa azione di trasferimento di tutti i detenuti alla “Casa circondariale E. Scalas” di Uta, nuovo e grande complesso penitenziario.

Tante storie, tanti i volti incontrati in questi anni, gioie e dolori, lacrime e sorrisi, scherzi e tragedie, comprendendo solo oggi che tutto è servito a rendere coloro che ci hanno speso tante ore delle proprie giornate certamente migliori. Tante e frequenti le rimostranze – a volte giustificate dalla condizione in cui si è trovato in tanti anni un carcere inadatto a gestire situazioni e ad essere strumento di recupero – incontrate negli innumerevoli dialoghi e confronti con l’opinione pubblica, che non hanno però demoralizzato il mio e altrui impegno quotidiano a rendere quel luogo uno spazio comunque di speranza, possibilità, incontro e dialogo; un luogo dove poter accogliere e amare, nonostante gli errori, nonostante le sconfitte dei suicidi, o del sovraffollamento disumano di questi ultimi anni.

Fuori si danno giudizi, sono tante le idiozie che ho dovuto sentire in molte occasioni da chi non è mai stato in un carcere e pretende di ridurlo a mere nozioni di cattedra. Dentro ci si sporca le mani, ci si scontra con i propri limiti e con quelli degli altri, ci si scontra nel modo di gestire le situazioni o i progetti scoprendo l’insufficienza degli approcci pedagogici, educativi e umani, trovandosi come pesci fuor d’acqua quando le proprie attese non si realizzano su quella parte di umanità.

Il carcere è un luogo da vivere concretamente, per poter comprendere, dopo tanti anni e tante esperienze, la portata di un giorno come quello vissuto domenica. Perché la popolazione detenuta, l’Amministrazione penitenziaria, io stesso, noi tutti siamo stati chiamati a cambiare per poter realizzare in meglio quello che in questi anni non ha potuto avere una risposta concreta di soluzione.

Il nuovo Istituto è moderno, tra i migliori probabilmente in Italia, creerà possibilità di nuove attività e coinvolgimento dei detenuti visti i tanti spazi disponibili per il lavoro e lo studio. I detenuti saranno chiamati a responsabilizzarsi anche sulle capacità di gestire la propria economia personale. Un carcere con un grado elevato di informatizzazione e tecnologia, a cominciare dagli ingressi nello stesso Istituto, così come nelle stesse sezioni detentive.

Vedo in questo luogo una enorme possibilità di riscatto per il mondo penitenziario isolano, un luogo capace di offrire una misura umana più dignitosa, uno spazio di vita possibile e migliore, pur sempre con la coscienza che il carcere è sempre il carcere, con le sue  giuste limitazioni verso chi ha sbagliato.

Sono inutili e sterili le polemiche che iniziano a spargersi. Il carcere è lontano dalla città? Non lo è solo per i detenuti, o per i familiari, ma per chiunque servirà ancora col suo tempo e lavoro questo luogo dovendo fare molta strada ma sapendo che potrà contare su meno disagio per tanti altri servizi. Per i familiari è già presente la fermata del pullman che da Cagliari porterà all’ Istituto. Il resto si riorganizzerà, si adatterà con lo sguardo al futuro, verso questa novità che servirà da stimolo per tutti.

La struttura è troppo grande? Dispersiva? Sì lo è, le dimensioni costringono a una nuova organizzazione, a una gestione diversa e più strutturata ma sono cambiamenti in meglio, non in peggio. Queste dimensioni mi costringono –ma io preferisco il termine provocano- ad un impegno ancora maggiore nel muovermi per raggiungere tutte le celle, tutte, indistintamente, a una a una nei quattro livelli di detenzione, ma conservo la stessa passione e convinzione che nulla potrà scoraggiarmi nel servire questi esseri umani che mi sono stati affidati. Come cappellano, custodisco in me, sempre, la motivazione più importante ed elevata: l’Amore di Cristo per ogni uomo, soprattutto l’ultimo, che è prediletto di questo amore. Il resto sono solo parole che lasciano il tempo che trovano.

La Casa Circondariale di Uta sarà nuova storia per 318 uomini e 20 donne reclusi, per tutti quelli che arriveranno, per chi avrà la possibilità di viverlo. Tutto servirà a renderci migliori, e speriamo a far capire che le carceri esistono –come esiste chi sbaglia in modi diversi– e non possiamo abbatterle, ma magari si abbatterà l’ignoranza e la bieca presunzione di chi pensa di avere le soluzioni in tasca, di chi  nella sua presunta intelligenza pretende di sapere tutto o giudicare tutto senza conoscere ciò di cui parla o scrive, di chi per pregiudizio queste righe le saprà leggere solo con gli occhi ma senza il cuore.

Magari si perderà l’abitudine a sprecare tempo con tavole rotonde e polemiche varie e si imparerà a sporcarsi le mani concretamente, non crocifiggendo ma aiutando chi è già crocifisso dai propri errori a schiodarsi dalla croce della propria disperazione e sconfitta per guardare lontano, per sentirsi nuovamente “umanità” che può riscattarsi e rivivere.

Padre Massimiliano Sira