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“Mi mettevo lì, rannicchiata, nell’angolo delle botte e aspettavo che lui, con la sua furia, finisse. Mi rifugiavo sempre nello stesso punto, tra un mobile e il frigorifero, le prendevo di santa ragione e, alla fine, non riuscivo più nemmeno a piangere”.

Lo sguardo perso nel vuoto, le mani tremanti, negli occhi lacrime più pesanti del piombo. Ha 35 anni Athena, e ora abita a Carbonia dopo esser fuggita dalla casa in cui viveva col suo ex marito, a Como. Racconta il suo passato ripercorrendo con fatica ogni istante e rivivendolo in tutto il suo terrore. Si è sposata giovanissima, quando aveva appena 18 anni e per i primi due anni è stato un matrimonio tranquillo.

Poi la svolta, l’incontro con una coppia di amici in cui lui prevaricava pesantemente la compagna. Un risveglio per suo marito che, in famiglia, aveva da sempre visto suo padre massacrare e umiliare costantemente e violentemente la madre.

“Non dimenticherò mai il primo schiaffo. Lo presi in pieno viso, non ricordo nemmeno per cosa, forse avevo cucinato male, o qualcosa del genere. A quello reagii istantaneamente, mi fece uscire di testa, gli gridai di non permettersi mai più di farlo. Ma fu solo la prima di una lunga e interminabile serie di violenze”.

“Perché succede così,” ci spiega Athena “che l’errore più grosso lo fai la prima volta, quando perdoni. Tutte le altre sono la conseguenza di quella prima botta, che hai fatto passare. E diventa un’abitudine lasciarsi sfogare tutta quella rabbia addosso, diventa una routine perdere ogni giorno un pezzo di te stessa facendoti annientare, umiliare, pestare come nemmeno con un animale si deve fare. Crolli come donna, come essere umano, come persona, non conti più niente, nemmeno per te stessa”.

Un racconto, lemmi messi insieme che forse solo da lontano somigliano a tutto quell’incubo che si vede solo dagli occhi, perché sono loro a parlare e a dire quello che la parola non sa esprimere in tutto il suo terrore.

Partire con un’idea, quella di capire, di chiedere, di inquadrare una storia in un qualcosa che succede davvero anche se sembra assurdo. Afferrare solo, però, che non si può razionalmente cogliere il senso di tanta bestialità, di quello che capita tra le pareti di una casa che per molti, invece, è un rifugio sicuro.

E non si può capire nemmeno il silenzio che, di colpo, circonda chi subisce; come se le grida, i lividi, un corpo che a un certo punto diventa un evidente specchio di ciò che sta accadendo, fossero tutti trasparenti.

“C’è una bestia ancora più crudele di tutto quello che ti si sta scagliando addosso, che ti dà il colpo di grazia facendoti sentire una nullità: è la solitudine. A un certo punto, quando vorresti solo che qualcuno venisse a strapparti via da quell’incubo, quando non capisci perché nessuno abbia il coraggio di guardare in faccia il viola delle botte che ti porti addosso, ti rendi conto di essere completamente sola e non saper fare niente per dare un suono deciso alle tue grida di aiuto”.

Un giorno poi, per disperazione, quando hai scoperto che nessun supereroe, nemmeno quelli che la divisa ce l’hanno davvero, arriverà a salvarti, lo specchio diventa il tuo migliore amico, quello più sincero, quello che ti racconta come stanno davvero le cose e che ti fa vedere chiaramente il tuo corpo di donna ridotto ai minimi termini, livido, e con dentro un’anima spenta. Così dopo due anni di ferocia  ti accorgi di dover sopravvivere e di doverlo fare iniziando da un basta.

Ed è un basta che ad Athena è costato caro. Caro quanto un percorso all’indietro, sui suoi stessi passi, sulle decisioni che aveva già preso, per tornare dalla famiglia che aveva lasciato, per raccontare il dolore, fisico e morale, che ormai era entrato a far parte di lei fino all’ultima cellula, per ricominciare dal nulla:

“Lui ormai c’è quando cammino, quando lavoro. Lui c’è quando sono sola e quando mi sveglio. C’è anche nei miei sogni. Tutto il giorno, tutti i giorni lui c’è, è con me, nella mia testa. E non se ne va mai via”.

“Ci sono giorni – continua con lo sfinimento negli occhi e nella voce – in cui apro gli occhi, e poi li chiudo, sperando di riaddormentarmi per sempre. Volte in cui mi sembra che nessuno mi stia abbastanza vicino e altre in cui mi guardo intorno e mi accorgo di aver trovato un ambiente sereno, anche se è un ambiente in cui ho portato tutti i miei fantasmi. Se raccontare, raccontarmi, può servire a qualcosa, a qualcuno, a me stessa forse, voglio farlo, perché a volte è la condivisione di un dolore grande che aiuta a liberarsene e far sentire le persone più vicine”.

Finisce così, in un racconto, la storia di un incubo durato due anni che, a distanza di quindici, ancora si fa sentire forte. Inizia così la speranza che la rottura di un silenzio possa scuotere gli animi di chi da fuori guarda facendo finta di nulla, contribuendo, in questo modo, con un silenzio più grave di mille parole sbagliate, alla demolizione di donne che senza colpa alcuna vengono bastonate da tutto l’amore che hanno provato.

Ma non lo sa Athena che, così fragile come lei si vede, così insicura come si sente, è la donna più forte del mondo. Non lo sa, lei, che da sola, senza l’aiuto di nessuno ha straordinariamente raccolto i suoi pezzi, li ha portati via dalla sua prigione e li ha rimessi insieme come in poche sono in grado di fare. Come in poche, forse, hanno la fortuna di poter fare perché il tempo, a volte, non basta.