Nella gigantesca sede del CHP – il più antico partito della Turchia, erede del kemalismo e di tradizione laica e socialdemocratica – campeggia un manifesto a tutta parete: hayir recita. Ovvero no.
Resti di una campagna referendaria “non vinta” causa brogli. Ferite di un Paese spaccato a metà e un ricorso alla Corte europea per i diritti umani. Violati da minacce, schede volanti, seggi inaccessibili agli osservatori dell’Osce, pressioni inaudite. Qui da noi.
Un Paese lacerato e una sconfitta politica per Erdogan, ridotto suo malgrado ben al di sotto della soglia della sua maggioranza parlamentare. Regna una calma strana nella Capitale. Quella che segue e precede la tempesta.
Il partito democratico dei popoli (HDP) la sede non ce l’ha più. Bruciata tempo fa e arrestato il leader Demirtas – da mesi in cella, rischia 94 anni di carcere – insieme ad altri tredici parlamentari, 90 sindaci, 180 giornalisti, 5000 attivisti. Cifre da brivido che si sommano all’epurazione di 103 mila dipendenti pubblici, ci riferiscono alla Cgil turca (KESK). Il primo maggio turco quest’anno sarà caldissimo.
Il golpe è fallito. Le leggi speciali restano e segnano la storia taciuta dei tanti Gabriele Del Grande, quelli che – come il nostro connazionale – finiscono in galera o in un centro di espulsione semplicemente perché pensano, domandano, parlano o si trovavano dove il regime non voleva.
Sta bene Gabriele. Lo conferma Filippo Colombo, consigliere dell’Ambasciata italiana ad Ankara. Ma le autorità turche – dopo dieci giorni di detenzione – ancora vietavano incontri e tutt’ora non dicono quando si completerà la procedura d’espulsione né di preciso su cosa verta l’indagine delle forze di sicurezza. Solo oggi, venerdì, finalmente, l’incontro con l’avvocato e la constatazione dal vivo delle condizioni fisiche e psicologiche.
Si trovava in una zona interdetta, zona di operazioni militari. Teatro di guerra. Non era accreditato, ma soprattutto parlava, domandava, pensava. E tanto basta, da queste parti, per essere fermato e incarcerato. In zona di guerra o meno. Questa è la Turchia di Erdogan.
L’Europa è lontana. Lo stesso Presidente ha fomentato un sentimento ultranazionalista ed antieuropeo, giocandoci sopra un pezzo di campagna referendaria, generando un diffuso risentimento contro l’Europa, fra i sostenitori dell’Akp. Partito egemone di un blocco politico del 60%, in un Parlamento che domani sarà banalmente il passacarte del sultano.
Qui, nel crogiolo di razze, all’incrocio fra Europa, Asia, Medio Oriente, si gioca un pezzo enorme del XXI secolo, sospesi fra laicità e terrore fondamentalista.
Ma Erdogan non è la Turchia. E i dati del referendum lo dimostrano. Le grandi città. Le giovani generazioni. Le componenti più dinamiche della società civile, della politica, dell’economia e della cultura gli hanno voltato le spalle.
Il punto è cosa deciderà di fare l’Europa. O forse banalmente se deciderà di avere un ruolo, se deciderà di superare questa orribile e schizofrenica politica che mescola – in maniera insipida e insipiente – ultra pragmatismo (se si tratta di interessi commerciali o di fermare i profughi) e minacce di rottura senza conseguenze concrete.
Un teatro che sta fiaccando le opposizioni democratiche e sociali che – tuttavia – ci hanno voluto lanciare un messaggio di speranza, rovesciando la lettura prevalente che – dalle nostre parti – abbiamo dato dell’esito referendario: Erdogan ha perso e ha paura. La maggioranza del Paese non sta più con lui.
E allora è Erdogan che bisogna isolare politicamente. Non la Turchia. È la violazione dei diritti umani che non può avere cittadinanza in Europa. Non i turchi. Non quella maggioranza, libera, oppressa e resistente che chiede aiuto e sostegno.
E vedremo se anche il nostro Paese, che da queste parti seguono con grande attenzione, saprà fare finalmente la sua parte. Se saprà fare politica. Per Gabriele Del Grande e per tutti i Gabriele di Turchia.
Michele Piras